Guerra dei sei giorni: come Israele cancellò l’aviazione egiziana in tre ore
ROMA – Nella mattina del 5 giugno 1967 i radar di sorveglianza giordani osservarono stormi di velivoli dall’Egitto verso Israele lungo il deserto del Negev. Nessuno saprà mai se il Re Hussein di Giordania credette realmente alle assicurazioni del presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, secondo il quale si trattava di un attacco definitivo dell’Egitto ad Israele. Oppure volle solo ignorare gli avvertimenti più volte arrivati da Tel Aviv a non entrare in guerra.
Quegli stormi di aeroplani, una «Balbo formation» come la chiamano nel mondo anglosassone, erano in realtà 200 velivoli di fabbricazione francese con la stella di Davide che tornavano a rifornirsi nelle loro basi dopo i bombardamenti di 12 aeroporti egiziani.
ATTACCO A SORPRESA
Quella mattina del 5 giugno solo 12 aerei rimasero a proteggere la giovane nazione di Israele. Tutti gli altri decollarono alle 7,15 dirigendosi sul mare, verso nord, come fosse una delle «normali» esercitazioni dei giorni precedenti. Una formazione era in effetti decollata anche prima per riatterrare poco dopo. Come per dare il senso di un’attività di addestramento giornaliero.
Come si faceva a capire che era in atto un vera azione militare? Gli attacchi aerei di solito vengono svolti all’alba, quando l’umidità della nebbia maschera il nemico in arrivo. E poi quale direzione più ovvia che quella lungo il confine egiziano da Est ad Ovest. Certo il presidente Nasser tutto si poteva aspettare tranne che un attacco da Nord-Nord Ovest, proveniente dal Mediterraneo.
VOLO RADENTE SUL MARE
Una pianificazione meticolosa quella richiesta dal ministro della Difesa di Tel Aviv, Moshe Dayan. Gli ordini erano di effettuare un volo radente sull’acqua (50 ft-15 metri) in assoluto silenzio radio. Quando si sarebbe entrati sul territorio Egiziano, cabrata a 9000 piedi per riconoscere gli obiettivi ed annientare le piste delle basi aeree. Nessun aereo egiziano riuscì a decollare. Non solo, ma fu sperimentato un nuovo ordigno per rendere inutilizzabili le piste di decollo e un enorme opera di intelligence permise di riconoscere gli obiettivi immediatamente escludendo le sagome di aereo civetta posizionate negli aeroporti. Non solo intelligence, anche una politica pragmatica e coesa. Gli egiziani credevano, dopo le ultime parole di Moshe Dayan, che Israele stesse cercando un dialogo per risolvere il problema delle Alture del Golan.
Alle ore 10.35, dopo 2 raid di sorpresa che aveva colto piloti e manutenzione a fare colazione, l’aviazione egiziana cessava di esistere. Pochissime perdite israeliane e 11 aeroporti egiziani annientati. Nel complesso nella giornata furono abbattuti 400 velivoli. Viene in mente una storica frase di Winston Churchill: «Never have so few pilots downed so many planes in such a short period of time».
LO SCENARIO IN BILICO
La sconfitta politica franco-britannica di Suez del 1956 aveva lasciato un vuoto colmato dall’Egitto di Nasser promotore e leader del panarabismo. Si stava delineando un nuovo campo di battaglia tra il mondo comunista e l’occidente capitalistico. In particolare nel medio oriente non erano più in gioco solo gli interessi locali ma occasione di uno scontro più forte ed ampio che avrebbe fatto gioco alle divisioni del mondo arabo. Il supporto esterno nei confronti di Israele da parte degli stessi Stati Uniti era ancora tiepido, in quanto continuavano ad inviare armamenti ai regimi arabi considerati moderati.
Nasser, supportato dall’Unione Sovietica che vedeva di buon grado la fine dello stato di Israele per ristabilire gli equilibri nell’area, aveva cominciato ad appoggiare le attività dell’OLP e quelle siriane sulle Alture del Golan, un altipiano da cui quotidianamente venivano minacciati le coltivazioni Israeliane. L’apice si raggiunse con il blocco alla navigazione del 22-23 maggio negli stretti di Tiran tra il sud della penisola del Sinai e quella arabica.
Israele si sentiva sotto minaccia a 360° e cominciò a pianificare un ulteriore esodo, fu programmato il trasferimento dei bambini via nave e realizzate fosse comuni nei giardini di Tel Aviv preparandosi alla fine. In una lotta di sopravvivenza, consci che non la potevano combattere sui loro esili confini non rimaneva altra soluzione che un attacco preventivo, lampo ed efficace. Nessuna infrastruttura, nodo commerciale industriale ed altro fu attaccata. Unico obiettivo era la superiorità aerea. Ottenuta quella velocemente (in meno di una mattinata) le altre mosse furono più semplici. In pochi giorni fu occupato il Sinai fino al canale di Suez, la Cisgiordania di Re Hussein, gli altopiani del Golan, la striscia di Gaza e Gerusalemme.
DOPO 50 ANNI RESTA L’ALLERTA
Un successo cosi ampio trasformò immediatamente la questione palestinese da tema circoscritto a tema mondiale. E lo scontro acquisì un senso sempre più acuto tramutandosi in scontro tra il modo di vedere ed intendere i problemi dello sviluppo, la pace, i diritti, la sicurezza ed il libero accesso alle risorse. Gli USA e l’Europa riconobbero qualcosa di loro in Israele e spezzarono immediatamente l’equilibrio a loro favore.
Ma oggi, a distanza di 50 anni, i problemi della questione palestinese sono ancora sul tappeto. E in Israele come nei cosiddetti «territori occupati» si continua a non vivere tranquilli. L’aviazione della stella di David è sempre all’erta. Non si può certo escludere che un’opzione militare che ricalchi l’attacco aereo all’Egitto del 1967 sia nei piani del governo di Tel Aviv. Non a caso, in tempi non remoti, aerei militari israeliani hanno effettuato una meticolosa «esercitazione» nei cieli del Mediterraneo. In direzione ovest fino alla Sardegna e ritorno. La stessa distanza, verso est, che separa Israele dall’Iran, il suo attuale e più temibile nemico.
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